Donnesmark firma la
sceneggiatura di quello che
possiamo definire forse il
suo film più personale, più
viscerale, forse
tecnicamente non al livello
dello straordinario Le
Vite degli Altri,
legato anch’esso ad Opera
Senza Autore dal voler
parlare del periodo storico
più tragico e problematico
della Germania, di quel
passaggio dal regime nazista
a quello comunista che anche
in questo film sono resi
alla perfezione, nella loro
comune aberrante essenza.
Protagonista è il giovane
Kurt Barnert (Tom
Schilling) che
cresce in una cortese
famiglia della Germania
orientale, costretta a fare
i conti con il terrificante
regime hitleriano e le sue
folli idee sulla razza, la
salute mentale e la
selezione genetica. La
dittatura e il secondo
conflitto mondiale
costeranno carissimi alla
famiglia di Kurt che,
cresciuto e divenuto un
giovane aspirante pittore,
cercherà di dare libero
sfogo alla sua vocazione a
qualsiasi costo. Intanto
nella sua vita entra la
bella e sensibile
Elisabeth (Paula
Beer), figlia
dell’arrogante, manipolatore
e oscuro
Professor Carl Seeband
(Sebastian
Koch) che Kurt
ignora essere coinvolto in
un episodio decisivo e
terribile della sua
infanzia. Opera
Senza Autore è la
storia di Kurt (ispirato al
grande artista tedesco
Gerhard Ritcher),
del suo paese ridotto in
cenere e poi rinato dalla
stessa, dei tanti
personaggi, volti, e
soprattutto dell’arte, di
quell’arte che guida per
mano un iter narrativo
complesso e straordinario in
ogni aspetto. Il cast
scelto con cura da
Donnesmarck si muove dentro
un racconto dove ognuno si
fa portatore di significati
storici marcati e palesi.
Un bravissimo Tom Schilling,
già apprezzato in Suite
Francaise, Woman in Gold
e nell’interessante serie
Generation War, è
semplicemente perfetto nel
far portare sulle spalle del
suo protagonista i sogni e
la volontà di quella
Germania in cenere, per metà
soggiogata al comunismo
sovietico, che dovette
costruire da zero un paese,
ritrovare un senso, un
significato, un posto.
Lo fece anche grazie a
quell’arte, che proprio
dalla Germania del
dopoguerra ha avuto forse i
più importanti innovatori e
sperimentatori in ogni
ambito. E non per caso.
Paula Beer fa della
sua delicata ma determinata
Ellie Seeband il simbolo
della rinascita e
dell’emancipazione della
donna tedesca, che sotto il
regime hitleriano era poco
più di una fattrice schiava,
mentre Saskia
Rosendahl assurge
con il personaggio di
Elisabeth, a simbolo del
martirio di coloro i quali
furono (e sono tutt’oggi)
perseguitati ed eliminati
per l’essere spiriti liberi,
diversi e fuori dalle
convenzioni. Su tutto
e tutti però domina, a
dispetto della sua natura
mefistofelica, perfida e
opprimente, il Professor
Carl Seeband di un
Sebastian Koch a
dir poco monumentale.
Algido, spietato, senza
pietà, codardo nel profondo
dietro la maschera di
mascolina autorità di cui si
ammanta, si aggira portando
con sé lo spettro dei tanti,
troppi nazisti che la fecero
franca, che caddero in
piedi. Difficile trovare un
personaggio tanto malvagio e
facilmente odiabile dal
pubblico, difficile anche
trovare un attore capace di
coniugare in sé tutto il
peggio del peggio
dell’estremismo conformista
e opportunista che ne fa in
certi momenti quasi il
protagonista di questo
dramma di un cinema d’altri
tempi.
Koch calibra ogni istante,
ogni espressione, ogni
parola per creare un alone
di raggelante cupidigia
esistenziale, plasmando un
cattivo ad un tempo
familiare e assieme quasi
irreale nella sua perfezione
machiavellica. Il suo
Carl Seeband non ha la
follia dell’Amon Goth di
Fiennes, o la depravata
lussuria del Franz Bietrich
di Thomas Kretschmann, ma è
più umano, più quotidiano,
più universale, e per
diversi momenti quasi ruba
la scena al protagonista.
Analizzando Opera
Senza Autore bisogna
però essere chiari su un
punto:
è cinema d’altri tempi,
è cinema che abbraccia con
la sua lunga durata (3 ore
belle piene) la ribelle
condensazione del
significato a cui il cinema,
un certo cinema non
commerciale, è soggetto
sovente dai meccanismi della
produzione. Ma del resto
anche Leone con il suo
eterno C’era Una Volta
in America pagò uno
scotto su tale questione.
Donnersmarck invece
rivendica la lunghezza che
non è mai prolissità,
l’indipendenza della propria
visione contro l’egoismo del
pubblico moderno, la libertà
di affrontare con questo
film più tematiche, numerosi
dilemmi e di creare un
racconto nel racconto, dove
l’arte è protagonista.
Un’arte che è presentata
anche dal punto di vista
storico, che funge a chiave
di lettura per meglio
comprendere quanto questi
due mostri, il nazismo e il
comunismo, siano stati due
lati dello stesso tentacolo
predatore di vite, di
coscienze, di libertà.
L’arte libera Kurt come
liberava Elisabeth, come ha
liberato lo strano ma saggio
Professor Van Verten
(Oliver
Masucci) che non fa
che rivendicarne l’essere
strumento ed essenza di un
dialogo interiore, di
un’espressione di
personalità e coscienza.
“Sii te stesso” spiega a
Kurt. L’arte ci renderà
liberi. Risulta
incredibile quanto, in
ultima analisi, Opera
Senza Autore riesca ad
affrontare, confrontare e
sviluppare in un continuo
interscambio, tematiche ed
elementi così vari, così
apparentemente complicati ma
lo faccia in modo eloquente,
accessibile, senza mai
appesantire, mai annoiare,
facendo scorrere tre ore di
cinema quasi senza fatica.
Straordinario
nella fotografia del maestro
Deschanel, con un montaggio
di Patricia Rommel che
esalta la colonna sonora
struggente di Max Ritcher, Opera
Senza Autore può
senz’altro rivendicare una
potenza espressiva, una
poesia, una coerenza e
bellezza di ogni ambito
della cinematografia, che lo
rendono pietra miliare della
cinematografia tedesca ed
europee contemporanee.
Alla fin fine, dopo
tre ore, l’istinto è quello
di rivederlo per perdersi in
questo racconto di vita,
sofferenza, felicità e
incertezza di enorme fattura
e passione.
(Giulio Zoppello -
Cinematographe)