I Film in Rassegna
nel mese di MAGGIO

 

MERCOLEDI 8/5
  MERCOLEDI 15/5
     
MERCOLEDI 22/5
  MERCOLEDI 29/5

 

 

LA CANZONE DELLA TERRA
Mercoledì 8 Maggio Ore 21,00

In collaborazione con LEGAMBIENTE

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Un film di MARGRETH OLIN

Norvegia - 90' - DocuFilm



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I paesaggi mozzafiato della Norvegia,
stagione dopo stagione.

Con le sue immagini e la sua musica
il film di Margreth Olin surclassa
tanti documentari sulla natura ben più costosi

 

"Da quando ero bambina ho desiderato seguire i tuoi passi". Una voce over commenta la ripresa dall'alto di un uomo che si inoltra a piedi in un vasto paesaggio innevato. È la voce di Margreth Olin, documentarista norvegese nata nel 1970. L'uomo che procede con le bacchette da camminata nordica è suo padre, Jørgen Mykløen, amante della natura e suo punto di riferimento. Il genitore che, quando lei era piccola, invece di leggerle una storia, l'ha sempre portata fuori, a camminare, mostrandole come prendersi il tempo necessario per osservare la natura. Il paesaggio, protagonista del film, è quello, magnifico, della valle di Oldedaden, nella parte Sud Ovest della Norvegia. Nello specifico, del suo più grande ghiacciaio, il Jostedalsbreen.

La regista torna per un anno, dopo una lunga assenza, in quei luoghi immersi in un silenzio raro, avvolti nella luce e nei riflessi dell'acqua e del ghiaccio, dove la natura si mostra in tutta la sua maestosità e onnipotenza.
Lo fa per raccontare in immagini il riavvicinamento ai genitori, padre di 84 anni e madre di 9 anni più giovane, ancora innamorati, anche nel canto, e il difficile tentativo di adattarsi all'inevitabile trauma del distacco da loro.
Già in selezione al Festival di Toronto, La canzone della Terra è stato candidato dalla Norvegia come miglior film agli Oscar 2024 e tra i produttori esecutivi figurano Liv Ullmann e Wim Wenders. Scandito in capitoli che seguono le stagioni, dalla primavera all'inverno, è un incrocio particolare tra il documentario di osservazione e il ritratto familiare autobiografico. Monitorando l'evoluzione del paesaggio, Olin ripercorre anche una linea genealogica, che corre dal tempo degli avi fino al presente. Da una dimensione essenziale, dalle condizioni di vita estreme, fortemente dipendente dalla natura e dalla sua volontà incontrastabile, a un'era segnata dall'impronta umana, in cui ogni ecosistema è minacciato e deve essere preservato, in nome del rispetto dovuto alle generazioni precedenti e per la sopravvivenza della specie.
Non c'è immagine in La canzone della Terra che lasci indifferenti e tutte passano attraverso lo sguardo innamorato di Olin, a sua volta appreso da Jørgen, che le fa tuttora da guida tra i fiordi. Un ghiacciaio che si scioglie, slavine che tingono l'aria di bianco, cascate imponenti, vegetazione che continua a crescere e rigenerarsi, incurante. Come l'abete piantato dal padre di Jørgen, che si impone sulla vallata e ricorda il passaggio tra generazioni e il dovere di conservare ciò che la nostra specie ha ereditato.
La particolarità principale del film è appunto la connessione e l'oscillazione tra le immagini grandiose e gli aspetti personali messi in scena dalla regista, il rincorrersi tra la storia del mondo e di una famiglia. Tale lavoro di raccolta e accostamento si deve a cinque diversi direttori della fotografia (due dedicati ai droni, uno alle riprese subacquee) e a differenti droni che avvolgono le cime e sovrastano spazi enormi, ma anche a dettagli ravvicinatissimi di fiori ed epidermidi, corrispettivi umani delle cortecce vegetali. Perché la natura è un organismo vivente con dei limiti, esattamente come il nostro corpo.
Le macchine da presa di Olin abbracciano infatti il gigantesco e il minuscolo, l'immenso e il particolare con lo stesso sentimento di meraviglia, gratitudine e amore per tutto ciò che vive. Immergendoci in questo habitat unico e affascinante, il film insiste sulla relatività dell'umano, la sua assoluta irrilevanza all'interno di un sistema più ampio. Ma anche sulla sua disponibilità ad amare il pianeta, anche quando questo la respinge o le strappa le persone amate. In una miscela inestricabile di innegabile perizia tecnica e riflessione esistenziale, profondamente ecologica.
 

 

IL TEOREMA DI MARGHERITA
Mercoledì 15 Maggio Ore 21,00
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Un film di ANNA NOVION

Francia - 112' - Drammatico



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Una nuova declinazione, più realista e al femminile,
delle storie che raccontano
i travagli dei geni matematici.
Bravissima la protagonista Ella Rumpf

Dottoranda in matematica all'École normale supérieure, la talentuosa Marguerite è talmente a suo agio da girare in pantofole per la facoltà. Il futuro sembra scritto, tra una discussione di tesi con il professor Werner e una carriera davanti per cercare di dimostrare, chissà, la mitologica congettura di Goldbach. Ci vuole il nuovo arrivato Lucas per notare un errore che rimette in discussione la tesi e per estensione la vita stessa di Marguerite, che reagisce mollando tutto e ricalcolando il suo percorso altrove.

Con alle spalle un paio di lungometraggi e alcune regie televisive, Anna Novion dirige in modo efficace se non particolarmente originale una storia tutta incentrata sulla magia della matematica, tema difficile da tradurre al cinema e proprio per questo intrigante.
È un mondo fatto di sogni di gloria senza tempo, a caccia di prove che da secoli ci sfuggono, e di lavagne enormi che sovrastano gli umani e faticano a contenere un fiume di formule. Lavagne che, scorrendo l'una sull'altra, recidono come una ghigliottina le certezze di Marguerite nel primo atto, lasciandola senza parole e senza il coraggio di voltarsi verso una platea di colleghi esterrefatti.
Lavagne che tornano poi più avanti, stavolta prive di binari, fluide e pitturabili su ogni superficie di un appartamento fino a inglobarlo di possibilità e speranze. Sarà una delle sequenze più ispirate in un film che, come la sua protagonista, non sempre trova facile scavalcare i confini prestabiliti della narrazione; al di là dell'ambientazione, Le théorème de Marguerite segue essenzialmente un canovaccio molto standard.
Una volta stabilito che non ci saranno sorprese, si può però godere del ritratto riuscito di una ragazza che si accorge di aver consacrato alle aule universitarie una parte forse troppo grande del suo essere. È buffo che a interpretarla, in tutta la sua guardinga timidezza, ci sia una performer vivace come Ella Rumpf, già vista in Raw di Julia Ducournau (Titane) e in Tokyo vice. Nascosta "alla Clark Kent" una gran parte di umanità dietro agli occhialini, Rumpf procede poi a ritrovarla passo dopo passo, attraverso incontri e re-incontri (il "rivale" Lucas, una nuova coinquilina che non ha paura della sensualità, una madre preoccupata) che la portano alla periferia di Parigi, tra ristoranti cinesi e partite clandestine di Mahjong.
Se la matematica si fonda sulla capacità di immaginare strade nuove verso un obiettivo lontano, il film di Novion offre invece il piacere complementare di un già visto che coccola lo spettatore e si declina al gusto gentile di un'ossessione filosofica, ricordandoci che abbandonarla per un po' aiuta sempre a rimetterla a fuoco.  (da MyMovies)

 

LA TERRA PROMESSA
Mercoledì 22 Maggio Ore 21,00
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Un film di Nikolaj Arcel

Danimarca - 120' - Biografico/Drammatico



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Un film avvincente ma anche
politicamente profondo e contemporaneo


Ludvig Kahlen
, capitano danese caduto in disgrazia, per riabilitare il suo nome decide, nel 1755, di coltivare la brughiera danese per conto del re; offrendosi volontario, mettendo a disposizione i propri mezzi e chiedendo in cambio solo quel titolo nobiliare sempre desiderato. La sua determinazione e il suo orgoglio creerà dissidi con Frederik de Schinkel prepotente proprietario terriero privo di scrupoli.
È la brughiera la vera, affascinante, protagonista dell’ultima pellicola diretta da
Nikolaj Arcel. Questa terra arida, incontrollabile e indomabile in cui Ludvig si rispecchia inevitabilmente perché gli somiglia. Lo nota anche lo spettatore, fin dalle prime immagini. Territorio bellissimo e inesplorato, lasciato a sé stesso e per questo capace di sottomettersi a nessuno. Ludvig testardo e sentimentalmente arido, si isola e si incaponisce nella sua impresa: pur di riuscire abbandona ogni altra cosa, la prospettiva di una famiglia e dell’amore, di un futuro lontano dalla sua brughiera.
Nikolaj Arcel
enfatizza gli aspetti ostili della terra di Ludvig mettendoli a confronto con Ludvig stesso, in un dualismo che diventa il fulcro del racconto. Mette in primo piano la bellezza della terra danese, i suoi territori sconfinati, accentuati da una fotografia che ne esalta i colori e al contempo ne evidenzia la rudezza in un susseguirsi di immagini e colori che allietano la visione.
La narrazione si concentra sulla figura del capitano, interpretato brillantemente da
Mads Mikkelsen, e ci conduce in un viaggio personale e territoriale come solo i film di un certo calibro sanno fare. La terra promessa diventa così un film storico, un racconto d’altri tempi ricco di dettagli e crudo, senza mezze misure. La rozzezza di quei tempi viene impersonata da Frederik de Schinkel, nei cui panni si cala un più che convincente Simon Bennebjerg, proprietario terriero prepotente e austero che cercherà con ogni mezzo di ostacolare l’impresa, forse non tanto impossibile, che Kahlen ha deciso di perpetrare.
Il titolo originale
Bastarden, che purtroppo si perde totalmente nella traduzione italiana, è già a suo modo indicatore della natura della pellicola e del racconto che essa perpetra. Lo si può associare senza dubbio alla terra incoltivabile, sovrastata da un cielo capriccioso e imprevedibile che rende il clima rigido e lo incasella tra i già innumerevoli nemici che Kahlen deve affrontare. Nessuno crede in lui che non smette invece mai di sperare nel miracolo anche se, una volta raggiunto, si renderà conto che il prezzoda pagare era in effetti più alto di quanto aveva prospettato e immaginato.
Nikolaj Arcel
firma un film in costume dal tono sommesso ma imperioso. Accompagna lo spettatore in una visione calda e coinvolgente, piacevole fin dalle prime immagini. Una biografia che convince e affascina, capace di raccontare un pezzo di storia sconosciuto ma inaspettatamente interessante.  (Gangs87 - FilmTV)
 

 

CHALLENGERS
Mercoledì 29 Maggio Ore 21,00
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Un film di LUCA GUADAGNINO

Usa/Italia - 131' - Drammatico/Sentimentale



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Straordinario Guadagnino, che attraverso il tennis
ci immerge in un rave party orgasmico
sull’eterna giovinezza, contro la forza di gravità
della vita e del tempo che scorre inesorabile


A tennis si può giocare in due. Al massimo in quattro. Quando si è in tre c'è poco da fare, o non si gioca o ci si alterna.
Scelto da Venezia 2023 come film d'apertura, poi cancellato a causa dello sciopero degli attori americani,
Challengers di Luca Guadagnino arriva finalmente nelle sale, ed è un approdo travolgente: il presente della storia è nel 2019, ad agosto, su un campo veloce dove i due contendenti, gli sfidanti – i challengers, appunto – stanno giocando la finale di un anonimo challenger a New Rochelle, New York.
Da una parte il biondo, slavato Art Donaldson (
Mike Faist), dall’altra il moro, più trasandato, Patrick Zweig (Josh O’Connor). Sugli spalti, posizione centralissima, a separare idealmente il campo proprio come la rete che divide i due avversari, impeccabile e apparentemente impassibile, bellissima ed elegante, Tashi Duncan (Zendaya).
La natura di questo mélo triangolare, che lascia a tratti senza fiato proprio come un batti e ribatti infinito al di qua e al di là del net, la cominceremo a capire strada facendo.
Guadagnino maneggia con spavalda leggerezza formale la (prima) sceneggiatura d’oro di Justin Kuritzkes (consorte di Celine Song, apprezzata per Past Lives, drammaturgo che per il regista italiano ha poi adattato Queer di William S. Burroughs, film in predicato per la prossima Mostra), asseconda l’eccezionale lavoro al montaggio di Marco Costa ed esalta il già di per sé esaltante contributo musicale di Trent Reznor & Atticus Ross (sodalizio che si rinnova dopo Bones and All), trasformando quell’incessante electro-beat (l’ipnosi seduttiva raggiunge il culmine con L'oeuf, traccia utilizzata come raccordo in alcune fasi della vicenda) in ulteriore corpo scenico capace non solo di sottolineare ma di esacerbare gli innumerevoli crescendo dei vari scontri/incontri dialettici tra i protagonisti, e relative svolte narrative.
Quell’inizio match che ci viene gettato in faccia ad inizio film – i close-up sulle gocce di sudore, sulle impugnature, quelle palline scagliate con veemenza che quasi finiscono per colpirci in pieno volto – non è altro che la/il finale di un cammino che inizia ben 13 anni prima: 2006, Art e Patrick trionfano in un doppio, sono amici inseparabili, pronti a sfidarsi in un singolare che lì per lì sembra contare più per uno che per l’altro.
In quel momento della loro vita irrompe con veemenza la lanciatissima Tashi Duncan, sensazionale promessa del tennis studentesco. L’approccio è tripartito, ma il numero di telefono verrà dato solo a chi dei due vincerà quel match: “Non sono una sfasciafamiglie”, d’altronde.
Ecco dunque che Challengers continua a formarsi/sformarsi all’interno di una costruzione che è rimbalzo indefesso tra passato (remoto/prossimo) e presente, con l’andamento dell’ultima sfida che è ulteriore, altalenante metafora del racconto/vita tutto: il ménage à trois sentimental/esistenziale di Guadagnino non è semplice ammicco alle reference cinematografiche più ovvie (Jules e Jim, The Dreamers, e quanti altri ve ne potranno venire in mente), no, è piuttosto paradigma delle infinite possibilità che si nascondono tanto nei rapporti tra le persone (Art e Patrick da amici indissolubili finiranno per perdersi e odiarsi) quanto nella finitezza del rettangolo di gioco.

Gli sfidanti del titolo capiranno – presto o dopo – di essere nulla più che due attori diretti da un’unica regista: “Stiamo parlando di tennis?” – “Di che altro dovremmo parlare?”.

Zendaya – la cui stella, comunque enorme, non ha mai realmente brillato quanto stavolta – è il deus ex machina che disfa e (forse) ricompone, è la lanciatissima tennista che a tanto così dal passaggio ai pro si spezza un ginocchio e pur di non lasciare il tennis si riscopre allenatrice: in fondo lo era già da ragazzina, ma Patrick la considerava una “pari”.
Sarà il ben più mansueto Art – follemente innamorato di lei – a costruire una carriera top sotto la sua guida, la guida di una coach-moglie che costretta a soffocare la propria ambizione ha dovuto ripiegare sul controllo della vita di un altro (da sé).
Il regista di Chiamami col tuo nome e Suspiria (che torna a dirigere un soggetto originale dal 2009, Io sono l’amore) porta all’estremo la conflittualità che uno sport come il tennis fa poco per nascondere, trasportandola al di fuori del match e riversandola sui dialoghi dei suoi personaggi, colti in differenti frammenti delle relative esistenze.  Poi, inevitabilmente, si ritorna in campo, si ritorna alla fine, all’oggi di quell’agosto 2019 – che meraviglia quella scena notturna al di fuori dell’hotel, durante la tempesta di vento, che anticipa il finale… – in cui due tennisti (uno riconosciuto a livello internazionale, l’altro sconosciuto anche al “più accanito appassionato di tennis”) ormai sul viale del tramonto dovranno stabilire, una volta per tutte, chi è meglio dell’altro.
A meno che quell’impercettibile segnale, quel codice che riporta a una vita fa, non faccia ripartire tutto daccapo… Colpire al centro, colpire al cuore. Non solo della racchetta.  (Valerio Sammarco  Cinematografo)