A tennis si può giocare in due. Al massimo in
quattro. Quando si è in tre c'è poco da fare, o
non si gioca o ci si alterna. Scelto da Venezia 2023 come film d'apertura, poi
cancellato a causa dello sciopero degli attori
americani, Challengers
di Luca Guadagnino
arriva finalmente nelle sale, ed è un approdo
travolgente: il presente della storia è nel
2019, ad agosto, su un campo veloce dove i due
contendenti, gli sfidanti – i challengers,
appunto – stanno giocando la finale di un
anonimo challenger a New Rochelle, New York. Da una parte il biondo, slavato Art Donaldson (Mike
Faist), dall’altra il moro, più
trasandato, Patrick Zweig (Josh O’Connor).
Sugli spalti, posizione centralissima, a
separare idealmente il campo proprio come la
rete che divide i due avversari, impeccabile e
apparentemente impassibile, bellissima ed
elegante, Tashi Duncan (Zendaya). La natura di questo mélo triangolare, che lascia
a tratti senza fiato proprio come un batti e
ribatti infinito al di qua e al di là del net,
la cominceremo a capire strada facendo. Guadagnino maneggia con spavalda leggerezza
formale la (prima) sceneggiatura d’oro di Justin
Kuritzkes (consorte di Celine Song, apprezzata
per Past Lives, drammaturgo che per il
regista italiano ha poi adattato Queer
di William S. Burroughs, film in predicato per
la prossima Mostra), asseconda l’eccezionale
lavoro al montaggio di Marco Costa ed esalta il
già di per sé esaltante contributo musicale di
Trent Reznor & Atticus Ross (sodalizio che si
rinnova dopo Bones and All),
trasformando quell’incessante electro-beat
(l’ipnosi seduttiva raggiunge il culmine con
L'oeuf,
traccia utilizzata come raccordo in alcune fasi
della vicenda) in ulteriore corpo scenico capace
non solo di sottolineare ma di esacerbare gli
innumerevoli crescendo dei vari scontri/incontri
dialettici tra i protagonisti, e relative svolte
narrative. Quell’inizio match che ci viene gettato in
faccia ad inizio film – i close-up sulle gocce
di sudore, sulle impugnature, quelle palline
scagliate con veemenza che quasi finiscono per
colpirci in pieno volto – non è altro che la/il
finale di un cammino che inizia ben 13 anni
prima: 2006, Art e Patrick trionfano in un
doppio, sono amici inseparabili, pronti a
sfidarsi in un singolare che lì per lì sembra
contare più per uno che per l’altro. In quel momento della loro vita irrompe con
veemenza la lanciatissima Tashi Duncan,
sensazionale promessa del tennis studentesco.
L’approccio è tripartito, ma il numero di
telefono verrà dato solo a chi dei due vincerà
quel match: “Non sono una sfasciafamiglie”,
d’altronde. Ecco dunque che Challengers
continua a
formarsi/sformarsi all’interno di una
costruzione che è rimbalzo indefesso tra passato
(remoto/prossimo) e presente, con l’andamento
dell’ultima sfida che è ulteriore, altalenante
metafora del racconto/vita tutto: il ménage à
trois sentimental/esistenziale di Guadagnino non
è semplice ammicco alle reference cinematografiche più ovvie (Jules e Jim,
The Dreamers, e quanti altri ve ne
potranno venire in mente), no, è piuttosto
paradigma delle infinite possibilità che si
nascondono tanto nei rapporti tra le persone
(Art e Patrick da amici indissolubili finiranno
per perdersi e odiarsi) quanto nella finitezza
del rettangolo di gioco. Gli sfidanti del titolo capiranno – presto o
dopo – di essere nulla più che due attori
diretti da un’unica regista: “Stiamo parlando di
tennis?” – “Di che altro dovremmo parlare?”. Zendaya – la cui stella, comunque enorme, non ha
mai realmente brillato quanto stavolta – è il
deus ex machina che disfa e (forse) ricompone, è
la lanciatissima tennista che a tanto così dal
passaggio ai pro si spezza un ginocchio e pur di
non lasciare il tennis si riscopre allenatrice:
in fondo lo era già da ragazzina, ma Patrick la
considerava una “pari”. Sarà il ben più mansueto Art – follemente
innamorato di lei – a costruire una carriera top
sotto la sua guida, la guida di una coach-moglie
che costretta a soffocare la propria ambizione
ha dovuto ripiegare sul controllo della vita di
un altro (da sé). Il regista di Chiamami col tuo nome e
Suspiria (che torna a dirigere un
soggetto originale dal 2009, Io sono l’amore)
porta all’estremo la conflittualità che uno
sport come il tennis fa poco per nascondere,
trasportandola al di fuori del match e
riversandola sui dialoghi dei suoi personaggi,
colti in differenti frammenti delle relative
esistenze. Poi, inevitabilmente, si
ritorna in campo, si ritorna alla fine, all’oggi
di quell’agosto 2019 – che meraviglia quella
scena notturna al di fuori dell’hotel, durante
la tempesta di vento, che anticipa il finale… –
in cui due tennisti (uno riconosciuto a livello
internazionale, l’altro sconosciuto anche al
“più accanito appassionato di tennis”) ormai sul
viale del tramonto dovranno stabilire, una volta
per tutte, chi è meglio dell’altro. A meno che quell’impercettibile segnale,
quel codice che riporta a una vita fa, non
faccia ripartire tutto daccapo… Colpire al
centro, colpire al cuore. Non solo della
racchetta. (Valerio Sammarco
Cinematografo)
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