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Mai come ora Park individua nella violenza la chiave per creare un mondo grottesco, che traghetta lo spartito espressivo del suo cinema ben oltre i perimetri già noti. Vertiginoso.
Nell’incipit di No Other Choice, Park Chan-wook cristallizza tutti i discorsi che attraverseranno trasversalmente le varie sezioni del racconto. Il ritratto di una famiglia dai legami indiscutibilmente inossidabili qui proposto dal cineasta sudcoreano, seguito da un’immediata lacerazione di questo (fragile) idillio familiare, fungono non solo da istantanee-apripista di una storia che arriverà a demolire in un istante la stabilità (economica, psichica e infine etica) del protagonista ma delineano quell’opposizione – se non addirittura confusione – di toni e registri che lungo tutto il corso della narrazione enfatizzeranno, per contrasto, la disgregazione del sistema morale di un individuo incapace di reagire virtuosamente alle avversità che la vita (e in particolare, le logiche della società ultracapitalistica coreana) gli pone improvvisamente davanti. E se agli occhi di Park Chan-wook (si guardi alla sua intera filmografia, a partire da Joint Security Area e Mr. Vendetta) l’unico antidoto alle pressioni che la sfera societaria della Corea del Sud genera sulla forza lavoro del paese continua ad essere la violenza, in No Other Choice tale istanza è sì presente e totalizzante da un punto di vista drammaturgico/tematico, ma diventa la chiave per creare un mondo puramente grottesco. Dove le schegge di violenza, da traumatizzanti veicoli di rabbia e inquietudini represse, vengono ora traghettate verso i lidi dell’irriverenza.
Il senso di lacerazione improvvisa cui si accennava in partenza, e che è sintetizzato da Park in appena una manciata di inquadrature, contempla proprio l’annichilimento dell’identità da pater familias a cui il protagonista ha delegato tutta la costruzione del Sé. All’immagine di apertura del “perfetto” e cristallino quartetto familiare, dai toni apertamente sognanti e favolistici, il cineasta fa seguire senza soluzione di continuità il traumatico licenziamento dell’uomo, su cui piomba il duro peso della (nuova) realtà. Man-soo (a cui presta il volto un Lee Byung-hun in stato di grazia) ha lavorato per 25 anni presso un’azienda di produzione cartiera, ma il conglomerato che ha da poco acquisito la compagnia ha richiesto al dipartimento delle risorse umane di tagliare il 20% della forza lavoro, all’interno della quale rientra anche il protagonista di No Other Choice. L’uomo, una volta congedato, entra in uno stadio di totale sfasamento, sia perché gli è stata sottratta la sua identità di “salaryman aziendalista”, sia perché da quel momento viene progressivamente abbandonato dalla società, essendo poi costretto ad accettare lavori sottopagati e per nulla in linea con le sue qualifiche. Ma dopo diversi mesi individua finalmente quell’impiego che gli consentirà di ritornare al suo status (sociale, e anche familiare) precedente: e per poter “battere” la concorrenza e massimizzare le sue possibilità di assunzione, decide di farsi giustizia da solo, escogitando così dei piani – il più delle volte ridicoli – che lo portino ad eliminare fisicamente i suoi avversari/omologhi.
Se in passato l’atto omicida, e le azioni eticamente opinabili che si porta dietro, si caricavano nel cinema di Park Chan-wook di un alone deliberatamente traumatico, quasi fossero i riflessi di una psiche irrimediabilmente corrotta dal richiamo avvilente del dolore, in No Other Choice non c’è mai una deriva patologica del male: ma solo l’estasi, in salsa ironica, del gesto sanguinario. Mai come ora il regista (neanche, se vogliamo, nell’altamente iperbolico I’m a Cyborg, But That’s Okay) aveva declinato il suo solito virtuosismo visuale nei soli orizzonti della commedia grottesca: grammatiche di cui il cineasta riesce qui a servirsi per cambiare il paradigma di tanto cinema anticapitalistico di sponda sudcoreana (o estremo-orientale, si pensi al sinico Upstream) attraversato il più delle volte da un caustico oltranzismo, da anni inteso come l’espediente drammaturgico ideale per stigmatizzare le anomalie societarie. Ma come decide Park di cambiare i connotati di questo orizzonte (quasi) dogmatico? Semplicemente aprendo il racconto ai linguaggi dell’assurdo, assurti adesso a cassa di risonanza delle storture di una società che accetta come suo fondamento naturale la dispensabilità dell’individuo, e che costringe “letteralmente” i suoi cittadini/vittime ad inquinare il proprio sistema valoriale pur di ottenere un lavoro ed una stabilità socio-finanziaria.
E ogni qualvolta No Other Choice sposa in pieno le logiche e le dinamiche più eccentriche della commedia nera, è in grado di dare vita a cortocircuiti impressionanti, con il film che in diversi momenti (si pensi alla folgorante macro-sequenza del primo omicidio) mette deliberatamente da parte la logicità, per dare vita ad esperienze di pura sinestesia. È in questo modo, nell’istante in cui lo spettatore esperisce/recepisce le immagini attraverso i soli sensi, che Park trova anche una formula parossistica (e dalle sfumature abbastanza inedite nel suo corpus filmico) per assegnare uno sfondo sociologico alle macchinazioni violente del protagonista, senza mai snaturare nel contempo le istanze fondative della sua poetica. Perché se è pur vero che il cineasta si allontana qui dalla radicalità dei vari Old Boy, Thirst o Lady Vendetta, è altrettanto vero che lo spirito distintivo del suo cinema viene assolutamente preservato. Tanto che il vertiginoso slancio energetico con cui Park, grazie ad un organico connubio di messinscena virtuosistica e montaggio sincopato, arriva ad innervare le narrazioni di un ritmo quasi stordente. Specialmente nelle scene più altisonanti e sopra le righe, che sembrerebbero a questo punto estendere lo spartito espressivo di Park ben oltre il suo solito (e già altamente influente) perimetro poetico.
(di Daniele d'Orsi - SentieriSelvaggi) |