La
TRAMA :
L'Orto
Americano,
il film diretto da Pupi Avati, inizia a
Bologna alla vigilia della Liberazione.
Un giovane aspirante scrittore (Filippo
Scotti) dalla mente
contorta, incrocia casualmente lo
sguardo di un'ausiliaria americana (Mildred
Gustafsson) dal barbiere e
se ne innamora follemente.
Non la dimenticherà mai e anni dopo
decide di andare negli Stati Uniti per
scrivere il suo romanzo definitivo.
Quando arriva in una cittadina del
Midwest, scopre che nella casa vicina
vive un'anziana signora che ha perso
ogni traccia della figlia. Di notte,
dall'orto della donna, provengono
inquietanti urla. L'uomo ricollega
alcuni dettagli sinistri e si convince
che la figlia dell'anziana vicina sia
proprio il suo amore americano, di nome
Barbara.
Decide così di volerla ritrovare. Le
ultime notizie che la madre ha di lei è
che ha sposato un italiano e vive in una
cittadina alla foce del Po. Lo scrittore
torna in Italia per condurre le sue
ricerche e scopre verità macabre che non
si immaginava nemmeno...
La RECENSIONE :
Pupi Avati non cessa mai di
stupirci. Magari non tutti i suoi film
ci sono piaciuti, su molte cose la
pensiamo diversamente da lui, ma è forse
l'unico autore talmente compenetrato col
cinema da arrivare a dirigere ben 43
film (contando solo quelli per il
cinema) in 57 anni di carriera,
esplorando generi e tematiche, dal
grottesco al religioso, dal biografico
alla commedia, dal sentimentale
all'horror, riuscendo a lasciare
un'impronta personale in tutti, con una
modalità produttiva dal budget contenuto
e un parco attori che gli si è sempre
dimostrato devoto. A 86 anni Avati
continua a sperimentare, coi generi, con
la musica e con la scrittura, visto che
è anche autore di numerosi libri,
romanzi e di una biografia. Gli amanti
del cinema di paura lo hanno elevato a
maestro grazie a film che hanno segnato
veramente il nostro immaginario con
l'originalità delle storie e delle
ambientazioni, creando quel gotico
padano che ha reso plausibile storie
come quelle narrate in La
casa dalle finestre che ridono,
Zeder,
L'arcano incantatore
e i più recenti, da Il
Signor Diavolo a questa sua
nuova impresa, L'orto
americano, che ci riporta
nello Iowa di Bix
e de Il nascondiglio.
Perché Avati ci crede a queste favole
oscure, che da bambino gli venivano
raccontate vicino al focolare, dove tra
tanta fantasia c'era anche qualche cruda
verità, e riesce ancora a farci credere
a quello che oggi ci racconta lui.
Nel suo nuovo film (tratto dal suo
romanzo omonimo, adattato e "aggiustato"
per lo schermo insieme al figlio Tommaso
Avati), tornano alcuni temi che il suo
cinema ha già percorso: il colpo di
fulmine, il secondo dopoguerra, le voci
dei morti, l'irruzione del
soprannaturale in un mondo popolato di
personaggi mostruosi e crudeli, spesso
dissimulati sotto le spoglie più miti.
Il protagonista – un intenso
Filippo Scotti, che
a tratti assomiglia al giovane
Franz Kafka,
intrappolato in un incubo da lui stesso
creato – è un ragazzo di Bologna, che
vuole fare lo scrittore ma a causa della
sua tendenza a parlare coi morti (le
foto dei defunti che lo accompagnano
sempre) viene rinchiuso giovanissimo in
manicomio. Guarito, scrive libri che
nessuno pubblica, finché non gli capita
l'occasione di passare un periodo in
America, nell'Iowa, dove spera di
scrivere il suo grande romanzo. Lì, in
modo del tutto sorprendente, si trova
come vicina l'anziana madre di una
ragazza bellissima, un'infermiera
dell'esercito americano di cui si sono
perse le tracce in Italia e che si
presume morta per mano di un serial
killer (vArmando De Ceccon, bravissimo).
Forse, ma il ragazzo ne è convinto, si
tratta della stessa donna, sirena e
chimera insieme, di cui si è innamorato
perdutamente dopo averle brevemente dato
un'indicazione mentre si trovava dal
barbiere. Il suo dovere, dopo aver
trovato un macabro reperto sepolto
nell'incolto orto della vicina, è
trovarla, o almeno renderle giustizia.
La storia, però, colma di coincidenze ed
eventi strani, è solo un pretesto per
mettere in scena una danza macabra in
cui una belva assetata di sangue
nobilita le feroci mutilazioni che
compie sul corpo femminile scrivendo in
forma di diario le sue azioni,
interpolate da antichi epigrammi greci.
In un raffinatissimo bianco e nero
(nella splendida fotografia di
Cesare Bastelli),
che accentua la cornice gotica pura del
racconto, Avati ci narra una storia da
incubo, in cui gli assassini in catene
devono entrare strisciando in una gabbia
del tribunale, dove la gente satura
degli orrori della guerra chiede di
riparare ai delitti con altra morte,
dove le bare si aprono, i morti
resuscitano e le vagine si animano negli
incubi. Amore e Thanatos, paura del
sesso e desiderio bestiale, romanticismo
e follia si mescolano in un film
suggestivo, in cui gli attori si muovono
essi stessi come ectoplasmi. L'inglese
Rita Tushingham,
la "It Girl" del Free Cinema Britannico,
già riscoperta da Avati per
Il nascondiglio, offre un
bellissimo ritratto di vecchia impazzita
dal dolore, che ricorda i personaggi di
certo cinema dell'orrore americano
interpretato da vecchie glorie come
Bette Davis e
Joan Crawford,
Chiara Caselli è un
perfetto Virgilio nel ruolo della
locandiera che fa da guida al ragazzo e
Roberto De Francesco
è impeccabile in una parte per lui
insolita, ma non c'è davvero nessuno
fuori parte. E non possiamo non citare
Sergio Stivaletti,
autore di un effetto speciale
artigianale impressionante, da grande
scuola del cinema di genere.
Ognuno, da un film, porta a casa quello
che gli resta, che spesso è molto poco.
Ecco, di un film come L'orto
americano, recitato per
altro in gran parte in inglese,
nonostante qualche minimo difetto, ci
resta molto a livello sensoriale, come
quella sottile sensazione di disagio che
ti prende e ti fa sentire in colpa
quando vedi cose che sai che non
dovresti/vorresti vedere. E in questo
Pupi Avati,
cattolico credente e praticante, che coi
morti - dice - ci parla davvero ,
ricopre la parte del diavolo, ancora una
volta, da maestro. (di
Daniela Catelli - ComingSoon) |