A volte basta una “piccola” idea
per portare sullo schermo un
grande tema. Jafar Panahi,
regista iraniano dissidente, a
cui il regime da tempo ha
vietato di realizzare film e di
lasciare il paese, lo dimostra
anche questa volta con Three
Faces. L’idea è
questa: una giovane aspirante
attrice (Marziyeh Rezaei) filma
il proprio suicidio con uno
smartphone, supplicando per
l’ennesima (?) volta la star
iraniana Benhaz Jafari di
prendere a cuore la sua
situazione, di ragazza
osteggiata dalla famiglia e
dalla comunità locale nel poter
perseguire il proprio sogno.
Benhaz Jafari, sconvolta, parte
insieme al regista Jafar Panahi
alla volta di quel villaggio
remoto, per sincerarsi che quel
video sia una messa in scena.
Lo fa partendo da un mistero,
la cui risoluzione dovrà
necessariamente passare per le
contraddizioni di un paese
andate a scovare nelle viscere
delle sue più arcaiche
convinzioni. È lì, in quel
remoto villaggio nel nordest
dell’Iran, raggiunto dopo un
lungo viaggio in auto
(caratteristica, questa del
road-movie nella sua
declinazione più intimistica,
tanto cara al cinema iraniano di
alta esportazione, si pensi al
compianto Kiarostami e allo
stesso, già citato Taxi
Teheran), che il reale
“svelamento” di Three Faces
si compie. Tre volti, tre
epoche differenti, e un
paradosso: i tre volti sono
quelli dell’attrice affermata,
dell’attrice emergente e
dell’attrice reietta, una donna
che “faceva film” prima della
Rivoluzione del ’79 e ora vive
da reclusa in una casetta al di
fuori del villaggio (non la
vedremo mai). Il
paradosso è quello legato al
villaggio stesso, ai suoi
abitanti, alla famiglia della
ragazza, per loro scomparsa da
tre giorni: Panahi e Benhaz
Jafari vengono accolti con
estrema cortesia, con l’attrice
omaggiata in ogni modo
possibile. Per quale
motivo, allora, sarebbe un
disonore per la giovane Marziyeh
entrare al conservatorio e
tentare di seguire quella stessa
strada? E perché l’altra
attrice, quella del passato, si
tiene ai margini della comunità?
Panahi – che nel film si
ritaglia nulla più che il ruolo
dell’autista, accompagnatore,
“traghettatore” – si inserisce
in questa contraddizione,
continuando a far sì che il
racconto proceda su questa
continua sospensione tra realtà
e finzione, sospensione su cui
sin dall’inizio (con la Jafari
che sospetta sia tutto un suo
inganno ripensando a quella
volta che le parlò di uno script
basato su un suicidio…) il
regista ha costruito l’intera
operazione. E fa in modo
che la centralità della donna
abbia il sopravvento non solo
per la risoluzione narrativa, ma
anche nel lascito del film
stesso sul nostro immaginario,
restando al di qua e inquadrando
al di là del parabrezza
l’incedere delle due attrici su
quella mulattiera, mentre si
allontanano per sparire dietro a
un tornante, con tre camion che
procedono in senso opposto, in
direzione del villaggio,
trasportando enormi giovenche
per farle accoppiare con i tori
locali.
Essenziale. Importantissimo.
(Recensione Cinematografo)