TRAMA :
Roma, il film diretto da
Alfonso Cuaron,
racconta un anno turbolento della vita di una
famiglia borghese nella Città del Messico degli
anni 70, attraverso le vicende della domestica
Cleo (Yalitza
Aparicio) e della sua collaboratrice
Adela
(Nancy García
García), entrambi di discendenza
mixteca, che lavorano per una piccola famiglia
borghese nel quartiere Roma a Città del Messico,
una famiglia guidata da
Sofia
(Marina de
Tavira), madre di quattro figli, che
deve fare i conti con l'assenza del marito,
mentre Cleo affronta una notizia devastante che
rischia di distrarla dal prendersi cura dei
bambini di Sofia, che lei ama come se fossero i
propri. Roma è un ritratto di vita vera, intimo
e toccante, raccontato attraverso le vicende di
una famiglia che cerca di preservare il proprio
equilibrio in un momento di lotta personale,
sociale e politica.
Alfonso Cuarón torna alle sue
origini. Torna alla sua terra, alla sua lingua
madre e torna soprattutto bambino, tentando di
oggettivare quei ricordi che nella sua memoria
lo vedevano circondato da una casa di cui erano
le donne a rappresentare il perno centrale.
Partendo dalla memoria, rendendola di un bianco
e nero che non nasconde nulla, anzi, rende
ancora più marcati oggetti e persone, il
cineasta messicano ci racconta come un narratore
attento un fatto del passato, parlando di
famiglia mentre nel cortile i bambini riempiono
l’aria di risate.
Roma,
in concorso nella sezione principale della 75ª
edizione del Festival di Venezia, si affaccia
sul piccolo per riportarlo con la potenza delle
immagini e la dolcezza delle rievocazioni,
portando con sé la presenza della regia di
Cuarón e utilizzandola per un nuovo tipo di
storia più intima e personale.
Sofia (Marina de Tavina) e la
sua famiglia sono i tipici borghesi. Tre figli,
un cane e due domestiche che aiutano a mantenere
l’ordine nell’abitazione e si prendono cura dei
bambini. Cloe (Yalizta Aparicio)
e Adela (Nancy Garcia) non si
lamentano del loro lavoro, dedicando tempo alla
casa, ma sapendosi svagare anche al di fuori.
Fino a quando le cose per la padrona Sofia e
Cloe non prenderanno una piega inattesa, che le
costringerà a raddoppiare la forza d’animo che
le porta avanti.
È a partire dai
suoni che ci immergiamo in Città del Messico, le
urla dei venditori per le strade, la musica
della banda, il continuo abbaiare o belare degli
animali, a seconda di quelli popolano in quell’istante
l’ambiente circostante.
Ed è perciò a
partire dal contesto sonoro che iniziamo a
percepire la vita febbricitante di Roma,
che decide di passare per i propri aspetti
percettivi prima ancora che procedere
direttamente con la storia, rendendo la
fruibilità qualcosa da regalare con la
distensione del tempo, il quale si rifà – come
già accennato – alla memoria.
E mentre tocchiamo
il suolo su cui crescono i figli di Sofia amati
anche da Cloe, la macchina da presa ci invita a
scrutare senza timore intorno alle figure umane,
per porre attenzione ai particolari che
richiamano un luogo andato, accarezzando in
ugual modo paesaggi e persone, con la
delicatezza di cui il film è capace. Nonostante
infatti l’impatto visivo che Alfonso Cuarón
riesce ancora una volta a riproporre con tocco
fluido seppur sempre incisivo, è soprattutto
nell’affettuosità delle panoramiche, nella
scoperta lenta dei posti abitati dai
protagonisti che Roma acquista il suo
peculiare registro. Un contrasto,
quello tra la
forza del linguaggio della messinscena – che
riporta al passato – e la sensibilità della
regia, che si riflette ancor di più
all’interno stesso delle inquadrature, che
sembrano vivere proprio di questo simbolismo in
continua opposizione tra ciò che si crede e ciò
che è invece destinato a capitare.
Gli eventi vengono
tramutati in segni che vanno cadenzano
l’esistenza delle donne protagoniste, destinate
a mantenere sulle proprie spalle il futuro della
famiglia. E la
calma che la pellicola propone entra in antitesi
con momenti di fuoco che accendono Roma
di una febbre vitale, anche quando ad
aleggiare è un vento di violenza e morte,
battendo ancora quella strada tappezzata da
simboli nascosti che sanno farsi, per chi è
pronto a guardare, esplicativi.
In questo dualismo
con cui Cuarón assembla il suo film, a cui il
regista affida i suoi ricordi per realizzare
l’opera finora a lui più vicina, trovano spazio
la potenza di un cinema in cui bisogna confidare
e che, se si lascia far entrare, può emozionare
per la sua portata innata, in grado di parlare
non solo della forza delle donne e del
sacrificio delle madri,
ma
dell’animosità da cui è possibile trarre vita.
Roma è la via per un regista di
raccontarsi come poche volte gli artisti sanno
fare, rendendo partecipi della propria
tradizione un pubblico a cui si è fieri di
dimostrare le proprie origini e i propri miti.
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