Bisognerà
cercarlo con attenzione, perché
uscirà in poche copie, ma giovedì 6
ottobre arriva nelle sale
cinematografiche italiane un film
d'autore notevolissimo: si intitola
'Gli orsi non esistono'
ed è il lavoro più recente del
cineasta iraniano Jafar
Panahi, aperto
oppositore del regime. Il
lungometraggio era in concorso alla
Mostra del cinema di Venezia 2022,
ma il suo autore non era presente
perché arrestato e condannato a sei
anni di prigione un paio di mesi
prima. Una detenzione che la
comunità internazionale ritiene
illecita e persecutoria.
'Gli orsi non esistono' è stato
realizzato con mezzi di fortuna: dal
2010 Jafar Panahi non
può lasciare il paese,
rilasciare interviste e girare film.
Divieto, quest'ultimo, che lui ha
aggirato, confezionando nuove opere
e riuscendo a presentarle ai
Festival di Cannes e Berlino. Lo
scorso 11 luglio si era recato
presso il pubblico ministero di
Teheran per chiedere notizie di due
colleghi da poco arrestati:
condannato per direttissima,
è stato subito incarcerato.
Ciò ha reso ancora più d'impatto
la trama di 'Gli
orsi non esistono': racconta di
Panahi che si trasferisce in un
paesello al confine con la Turchia
per dirigere a distanza (quando il
segnale web lo consente) il film che
la sua troupe sta girando nella
città turca al di là del confine.
Questo secondo lungometraggio
racconta la storia vera di una
coppia di esuli iraniani che tentano
di partire per Parigi con documenti
falsi. Inoltre, scattando una
fotografia, Panahi ha fatto scoprire
una coppia di fidanzati clandestini:
bisogna gestire la situazione.
Questo intreccio fra realtà e
finzione, realismo e messa in scena,
è uno dei discorsi che innervano
tutto il cinema di Jafar Panahi. Un
autore stimatissimo e
premiatissimo nel mondo,
grazie a opere come 'Il cerchio',
'Taxi Teheran', 'Tre volti' e 'Offside',
solo per citare i titoli più famosi.
Altro tema a lui caro è la
condizione umana in un mondo dove
tradizioni ancestrali e
divieti politici limitano
grandemente le libertà delle persone.
Cosa che, tra l'altro, riverbera in
modo particolare con la cronaca di
questi giorni, caratterizzata dalle
estese proteste motivate dalla morte
dell'iraniana Mahsa Amini, picchiata
dalla polizia per avere indossato il
velo in maniera non corretta.
(Quotidiano.net)
Un
atto politico sul valore della
libertà: si può riassumere così il
potentissimo “Gli orsi non
esistono”, nuovo film di Jafar
Panahi che ha ottenuto un meritato
Premio Speciale della Giuria
all'ultima Mostra del Cinema di
Venezia.
Una pellicola che acquista ancor più
valore considerata la situazione che
sta vivendo lo stesso autore: il
grande regista iraniano è stato
arrestato lo scorso luglio dal
governo del suo paese per scontare
la condanna a sei anni di reclusione
inflittagli nel 2010, perché
accusato di lavorare a film
anti-regime.
Nello stesso anno a Panahi era stato
inoltre vietato di realizzare nuovi
film, di viaggiare e di rilasciare
interviste sia in Iran che
all'estero, per vent'anni, con
l'accusa di “propaganda contro il
regime”: da quel momento l'autore ha
girato in clandestinità, firmando
lungometraggi importanti come “This
Is Not a Film” del 2011 o “Taxi
Teheran” del 2015, con cui ha vinto
l'Orso d'oro al Festival di Berlino.Con
queste pellicole Panahi è sempre
riuscito a far sentire la sua voce e
non fa eccezione questa sua nuova
opera, in cui sposta l'attenzione
dalle contraddizioni e ingiustizie
della città di Teheran a quelle
dell'Iran rurale.
Come nei suoi lavori precedenti, il
regista è anche il principale
interprete dei suoi film, capaci di
combinare con equilibrio realtà e
finzione: ne “Gli orsi non esistono”
Panahi si trova in un villaggio al
confine con la Turchia, mentre da
remoto segue la lavorazione di una
pellicola che la sua troupe sta
girando nella capitale.
In questo film che mescola giustizia
sociale e considerazioni sul
linguaggio cinematografico, già
l'inizio ci propone un'interessante
riflessione sul potere
dell'immagine, sulla fotografia e
sul cinema stesso: argomenti che si
svilupperanno lungo tutta la
pellicola, anche a partire dalla
sequenza di un processo locale, in
cui Panahi, imputato, rompe le
tradizioni del luogo e sceglie di
filmarsi, così da sottolineare
ancora una volta quanto la verità
debba essere documentata e non possa
essere mai taciuta.Tra i tanti
passaggi notevolissimi di un disegno
d'insieme che funziona
perfettamente, c'è però una scena
che svetta su tutte le altre: un
momento memorabile in cui il regista
si trova prossimo a superare il
confine iraniano, salvo poi tornare
indietro in una sorta di
anticipazione della parte conclusiva
in cui sceglie di restare,
nonostante il rapporto non facile
con gli abitanti del luogo.Una scena
che riassume il senso di questo
grande film, in cui il cinema è
l'arma per provare a resistere,
nonostante tutto. (Il sole 24
ore.com)
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