"E' tutto
sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il
sentimento, l'emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di
bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile". Roma,
la sua grande bellezza, scorre sotto gli occhi di Jep
Gambardella (Toni
Servillo): in lontananza, costante, il Choir Of
The Temple Church esegue The Lamb di
John
Tavener, dalla celebre poesia di William Blake,
raccolta in "Songs of Innocence", in cui il poeta-bambino-agnellino
scorge il mondo con l'innocenza tipica dell'infanzia. In mezzo, la
sacralità eterna di una città commovente e disperata accoglie e
rigetta i suoi figli naturali e adottivi. Jep è tra questi ultimi,
sessanticinquenne campano arrivato a Roma a 26 anni e "precipitato
abbastanza presto, quasi senza rendersene conto, in quello che si
potrebbe definire il vortice della mondanità". Ma "io non volevo
essere semplicemente un mondano. Volevo diventare il re dei mondani.
Io non volevo solo partecipare alle feste: volevo avere il potere di
farle fallire".
Il sacro (I lie di David Lang) e il profano (Far l'amore
di
Raffaella
Carrà nel remix di Bob Sinclair), la
beatitudine (Kronos Quartet) e il classico (My Heart's in the
Highlands di
Arvo Part,
il Dies Irae di
Zbigniew
Preisner) contrapposti e mescolati al caos e al
caduco (We No Speak Americano, Mueve la Colita): nel
cielo, semitrasparente,
La grande
bellezza si dissolve come la sovrimpressione
che dà il titolo al nuovo lavoro di
Paolo
Sorrentino, oggi in Concorso a Cannes e nelle sale
italiane.
Interamente ambientato e girato a Roma, scritto dallo stesso regista
insieme a
Umberto
Contarello, il film segue come detto l'incedere di
Jep Gambardella, giornalista e scrittore dolente e disincantato
(unico romanzo all'attivo L’apparato umano, premiato con il
"Bancarella" molti anni prima, come gli ricorda l’amico interpretato
da un
Carlo
Verdone malinconico e svuotato), animale notturno
e festaiolo, osservatore e frequentatore di un'umanità vacua e
disfatta, potente e deprimente: dame dell’alta società più o meno
sfatte, criminali d’alto bordo, attori, nobili decaduti, alti
prelati, artisti e intellettuali veri o presunti legati da rapporti
inconsistenti e fagocitati in una babilonia disperata che si agita
nei palazzi antichi, le ville sterminate. Che si stagliano nel vuoto
di una Roma calda e sedata, indifferente come una diva morta.
La "vita", quello che ne rimane, affoga in gin tonic e in
chiacchiere da talk show, soccombe sotto i decibel di terrazze con
vista "Martini" (via Veneto), si nasconde in strip-club o in
esclusivi "botox party": all'alba, poi, nel silenzio di un cammino
solitario, affida alle correnti del Tevere l'oblio di un'esistenza
che sembra aver perso gli stimoli per una ricerca di senso.
L'estetica, l'etica e il religioso: seguendo i movimenti di macchina
che caratterizzano il sesto film di Sorrentino (il quarto con
Servillo, il quinto con la fotografia di
Luca
Bigazzi), le triangolazioni attraverso cui
accompagna lo sguardo (ascendenti-discendenti-orizzontali) e l'iter
"emozionale" del suo protagonista (dal rigetto di qualunque
principio morale al tentativo di instaurare un rapporto vero con
Ramona, interpretata da
Sabrina
Ferilli), è forte il richiamo ai tre stadi
kierkegaardiani dell'esistenza, che non a caso culminano - proprio
come il racconto, con la venuta della santa - nella
"solitudine" al cospetto di Dio, con l'uomo chiamato ad abbandonare
ogni finzione o illusione. Il "trucco", lo stesso con cui si può far
sparire una giraffa durante un numero di magia, è quello che rimane
a Jep per ritrovare la grande bellezza, miraggio di un amore
giovanile dimenticato su uno scoglio al chiaro di luna.
Complessa e stratificata, l’opera del regista napoletano insegue lo
stupore e il terreno, l’ascesa e la caduta: nell’equilibrio e nella
suggestione della sospensione tra i due piani trova il culmine di
geometrie estetiche un linguaggio riconoscibile e dirompente (che
nel precedente
This Must
Be the Place rischiava di perdersi negli
infiniti spazi di un’America incontrollabile), legato saldamente
allo straordinario lavoro eseguito sulle musiche (di
Lele
Marchitelli quelle originali), che non a caso
vanno a comporre una colonna sonora dalla durata pressoché identica
a quella del film (2h24min in doppio CD per la EMI). Un film che gli
occhi e le orecchie dimenticheranno difficilmente. Di grande,
grande bellezza. |