La
California è un piccolissimo paesino nel bel
mezzo della pianura padana, lato emiliano. Qui
vivono agli inizi degli anni ’90 le sorelle
Alice (Giulia
Provvedi) ed Ester (Silvia
Provvedi) insieme al padre Yuri (Lodo
Guenzi), al nonno Tuono (Andrea
Roncato), ex partigiano e ora
pescatore, e alla madre Palmira (Eleonora
Giovanardi). Le due ragazze non
potrebbero essere più diverse tra loro: Ester è
una ribelle come il padre Yuri, da cui ha preso
anche l’amore per la musica punk mentre Alice è
più acqua e sapone e ha il temperamento della
madre. La famiglia non naviga in buone acque e
il lavoro scarseggia dato che il padre,
allevatore di maiali destinati al macello, ha
anche contratto dei debiti non ancora saldati
mentre la madre è un’ex appartenente al partito
comunista ora ridotta al ruolo di semplice
casalinga. Alice ed Ester vorrebbero scappare da
lì per raggiungere la tanto agognata California,
quella vera, stato di cui coltivano il mito
anche grazie ai tanti poster di attori e
rockstar che circondano i muri della loro
stanza. L’arrivo di Pablo (Riccardo
Frascari) con il padre Allende (Alfredo
Castro), un cileno scappato dalla
dittatura di Pinochet anni prima e rifugiatosi
in Italia, sconvolgerà l’apparente quiete de La
California ma è altrove che il vero pericolo si
annida. In quella nube di gas tossica e scura
che non smette di propagarsi nell’aria, causata
dagli scarichi industriali dell’azienda guidata
dallo spietato Gualtiero (Stefano
Pesce)
L’aria è
putrefatta, irrespirabile, cosparsa di un gas
altamente pericoloso e potenzialmente letale.
Tutti i cittadini de La California la
respirano, ne hanno i polmoni pieni e non solo
quelli. Nonostante il nome evocativo La
California è un paesino marcio e dimenticato da
Dio, in cui si è costretti a sopravvivere tra
vastissime distese di granturco, la nebbia
invernale, la calura estiva e
il nulla al di là e al di qua dell’orizzonte.
Un luogo senza futuro da cui dover scappare se
si hanno sogni veri, un luogo in cui il male ha
pian piano inquinato tutto. Una figura vestita
di nero osserva tutto, non conosceremo mai
davvero la sua identità ma possiamo riuscire ad
intuirla. In questo posto così asfissiante Alice
ed Ester sono costrette a trovare la loro
strada, a
districarsi tra le poche possibilità e
un’umanità in cui si intravedono poche luci e
tante ombre.
Quella
polvere che penetra nel sangue e viene
trasportata su, lì fino al cuore e al cervello,
diventa la rappresentazione di un disagio, di
un’urgenza che solo due ragazzine adolescenti
con in tasca tanti sogni e tutta la vita davanti
possono vivere. Quello smog non è solo metafora
del Male, ma
anche e soprattutto della mancanza del Bene che
è cosa ben diversa. Il Bene visto come speranza,
come nutrimento per i sogni, come libertà di
poter essere ciò che si vuole.
Ah, la provincia. Quella fatta di abbracci, di
risate, di uomini piccoli o grandi, di tavolate
in compagnia, di segreti. L’arco di Alice e di
Ester, destinato a finire in tragedia, è solo la
punta dell’iceberg di un film in cui molti dei
personaggi si ritrovano a dover lottare per
sopravvivere. Le due sorelle gemelle vorrebbero
raggiungerla la California vera ma è lontana e
troppo costosa, o forse vogliono semplicemente
raggiungere un’altra California, dovunque essa
sia. La
California è un posto in cui solo
all’apparenza non succede niente, ma in realtà
succede tutto e in cui la voce narrante
fuoricampo di Piera degli Esposti ci guida
ovunque. Come tutte le provincie del
mondo nasconde segreti, dà vita a personaggi
pieni di odio e di disprezzo per i diversi, per
le donne, per coloro i quali non si legano alle
logiche del potere o del profitto. Personaggi
come Gualtiero, che in questo film rappresenta
tutto ciò che la provincia crea di mostruoso,
d’inafferrabile, di sbagliato. Un uomo
arrogante, ma
di quella arroganza tipica di chi nella vita si
è preso tutto senza meritarselo davvero.
In un certo senso Gualtiero rappresenta
perfettamente la metà oscura del doppio insito
in ognuno di noi,
due metà agli
antipodi come le gemelle e le loro personalità
diametralmente opposte. Mentre Alice ed
Ester si confrontano con il dover crescere, una
di loro sarà costretta a imporsi sull’altra e a
dominarla come succede alla personalità di
ognuno di noi e, nel farlo, a dover rinunciare
per sempre al lato più debole, a quello più
ingenuo, a quello destinato a soccombere e poi a
morire.
Ne La California tutto prende una forma
strana e difficilmente leggibile o
interpretabile, persino gli eventi reali che
scandiscono l’andamento del film: la strage di
Bologna, la caduta del muro di Berlino, la
discesa in campo di Berlusconi sono
fatti che
appartengono alla storia ma che rimangono troppo
lontani perché i personaggi possano afferrarli.
Il film è stato girato con l’ausilio di lenti
anamorfiche degli anni ’70
che accentuano
le deformità degli spazi, dei volti e delle
personalità di ognuno di protagonisti
nonostante la narrazione sia costellata da un
po’ troppi eventi all’apparenza slegati fra
loro, specialmente nel primo atto (colpa di
alcuni tagli nel copione dovuti al budget).
L’atmosfera onirica e disincantata allo stesso
tempo aiuta questo processo di straniamento che
accomuna lo spettatore ai personaggi, perché
tutto quello che vediamo sullo schermo risulta
in qualche modo innaturale, alieno, sporco ma di
quello sporco che non è possibile pulire via.
Nel cast, in cui compare anche
Nina Zilli
nel ruolo di una barista, spicca in particolare
quell’Alfredo
Castro pupillo di
Pablo Larrain
nel ruolo del tormentato Allende mentre
le sorelle Provvedi, al loro esordio
cinematografico, dimostrano comunque di
possedere una
buona carica comunicativa e un potenziale
talento di fondo da sviluppare. La
California è un film bizzarro, dai contorni
non ben definiti, che gioca con i generi e i
registri ed è
anche sincero, onesto e a suo modo coraggioso
come tanto cinema italiano non sa esserlo più.
Ah, la provincia.
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