In collaborazione con la CINETECA di BOLOGNA
IL CINEMA RITROVATO 2022
"Classici restaurati in Prima Visione"
Il sito ufficiale


*** I CLASSICI DEL CINEMA TORNANO IN SALA ***

Prosegue l'iniziativa della CINETECA di BOLOGNA
con tanti splendidi film
che hanno fatto la storia del Cinema


Il programma 2022/2023
 

 

 

         

 

 

         

 

 

E poi ...

IL GRANDE BUSTER di PETER BOGDANOVICH

A VENERDI', ROBINSON di MITRA FARAHANI
 

 


 

(Canada/1983) di David Cronenberg

Sceneggiatura: David Cronenberg. Fotografia: Mark Irwin. Montaggio: Ronald Sanders. Scenografia: Carol Spier. Musica: Howard Shore. Interpreti: James Woods (Max Renn), Sonja Smits (Bianca O’Blivion), Debbie Harry (Nicki Brand), Peter Dvorsky (Harlan), Leslie Carlson (Barry Convex), Jack Creley (Brian O’Blivion), Lynne Gorman (Masha), Julie Khaner (Bridey), Reiner Schwarz (Moses). Produzione: Claude Héroux per Filmplan International, Guardian Trust Company con la partecipazione di Canadian Film Development Corporation (CFDC), Famous Players Limited. DCP. Durata: 87’.

Restaurato in 4K nel 2022 da Arrow Films con la supervisione di James White e James Pearcey presso il laboratorio Silver Salt, a partire dal negativo camera originale 35mm ed elementi intermedi conservati da NBC Universal. Restauro approvato da David Cronenberg.

L’idea nasceva dalle numerose ore notturne che avevo trascorso davanti alla televisione da bambino, quando mi capitava di vedere improvvisamente dei segnali causati da interferenze. […] Era stata quell’esperienza che mi aveva portato a immaginare un uomo che capta per caso un segnale bizzarro, estremo, violento e molto pericoloso. A causa del suo contenuto ne diventa ossessionato, cerca di rintracciarlo e si trova invischiato in un intricato mistero. […] Quando cominciai a scrivere, la storia prese improvvisamente ad alterarsi. Max aveva delle allucinazioni e gli succedevano delle cose fisiche impossibili, andavano anche oltre quelle contenute nel film. A un certo punto si rendeva conto che la sua vita non era come aveva pensato che fosse: lui stesso non era come aveva creduto di essere. Alla fine decisi di interrompere, perché la storia era così esagerata da essere troppo per un solo film. Ciò che avevo scritto mi aveva davvero sbalordito. Se intendi fare dell’arte, devi esplorare alcuni aspetti della tua vita senza riferimenti a istanze o a posizioni politiche. Con Videodrome ho voluto suggerire la possibilità che un uomo sottoposto a immagini violente cominci ad avere delle allucinazioni. Ho voluto sperimentare cosa succederebbe se accadesse davvero quello che i censori sostengono. Come sarebbe? Dove porterebbe?   (David Croneneberg)

Videodrome è a tutti gli effetti il ‘manifesto’ del cinema di Cronenberg: un film paradigmatico, pluristratificato e scioccante. Sconvolgente come un’allucinazione, lucido e denso come un saggio teorico sul mondo mass-mediale in cui ci è dato di vivere. Raramente il cinema ha portato così in profondità la riflessione su se stesso, sul proprio senso, sul suo rapporto con gli altri media e con il corpo degli spettatori. […] Cronenberg riflette sull’intossicazione iconica derivata dal consumo di immagini televisive e sulle modificazioni fisiche e antropologiche che la diffusione della Tv sta apportando all’apparato percettivo umano. Videodrome ha cioè la forma inquietante di un’interrogazione problematica sulla natura riproduttiva delle immagini e sul rapporto di ambivalente fascinazione e repulsione che l’occhio umano prova di fronte ai propri sogni e ai propri incubi reificati e incessantemente riprodotti sullo schermo della Tv”.

 


 

(Psycho, USA/1960) di Alfred Hitchcock

Soggetto: dal romanzo omonimo (1959) di Robert Bloch. Sceneggiatura: Joseph Stefano. Fotografia: John L. Russell. Montaggio: George Tomasini. Musiche: Bernard Herrmann. Scenografia: Robert Clatworthy, Joseph Hurley. Costumi: Rita Riggs. Interpreti: Anthony Perkins (Norman Bates), Janet Leigh (Marion Crane), Vera Miles (Lila Crane), John Gavin (Sam Loomis), Martin Balsam (detective Arbogast), John McIntire (sceriffo Chambers), Simon Oakland (dottor Richmond), Vaughn Taylor (George Lowery). Produzione: Alfred Hitchcock per Shamley Productions. Durata: 109’

Il capolavoro del macabro di Alfred Hitchcock vede Anthony Perkins nei panni del tormentato Norman Bates, tassidermista e voyer, la cui vecchia casa buia e il motel adiacente non sono esattamente il posto dove trascorrere una serata tranquilla. Nessuno lo sa meglio di Marion Crane (Janet Leigh), la sfortunata cliente il cui viaggio termina nella famigerata scena della doccia, 45 secondi fra i più celebri della storia del cinema. A cercarla saranno un investigatore privato e la sorella di Marion (Vera Miles). Hitchcock gioca da maestro con le attese e le emozioni del pubblico: l'orrore e la suspense salgono fino a quando il volto del misterioso assassino verrà finalmente rivelato.

L'idea, in Psycho, è che basta una lieve deviazione nelle relazioni umane (deviazione di percorso, di comportamento, di desiderio) perché esse conducano alla distruzione. Psycho svela il caos appena sotto la superficie levigata della civiltà, la barbarie come sempre tra di noi, dentro di noi.  (Peter von Bagh)

Ho sempre pensato che sullo schermo bisogna mostrare il minimo per ottenere il massimo sul pubblico. A volte è necessario mostrare un po’ di violenza, ma soltanto se vi è una forte motivazione. Per esempio, in Psycho è presente questo assassinio impressionistico in una doccia [...]. Ora, una volta mostrata quella scena, ho instillato nelle menti degli spettatori un’apprensione riguardo l’esistenza di un assassino in modo che, col procedere del film, ho potuto ridurre e praticamente eliminare l’ulteriore violenza perché desideravo che la minaccia fosse soltanto percepita. [...] Psycho è stato concepito soprattutto per depistare lo spettatore. Lo spettatore doveva pensare che il film parlasse di una ragazza che rubava 40.000 dollari. [...] La mia più grande soddisfazione è che il film ha avuto un effetto sul pubblico, ed era la cosa alla quale tenevo di più. In Psycho del soggetto mi importa poco, dei personaggi anche; quello che mi importa è che il montaggio dei pezzi del film, la fotografia, la colonna sonora e tutto ciò che è puramente tecnico possono far urlare il pubblico.   (Alfred Hitchcock)

 


 

(Casque d’or, Francia/1952) di Jacques Becker

Sceneggiatura: Jacques Becker, Jacques Companéez. Fotografia: Robert Le Febvre. Montaggio: Marguerite Renoir. Scenografia: Jean d’Eaubonne. Musica: Georges Van Parys. Interpreti: Simone Signoret (Maria, ‘Casco d’oro’), Serge Reggiani (Georges Manda), Claude Dauphin (Félix Leca), Raymond Bussières (Raymond), Gaston Modot (Danard), Loleh Bellon (Léonie Danard), Roland Lesaffre (Anatole), William Sabatier (Roland Dupuis). Produzione: Speva-Films, Paris-Films Productions. Durata: 96’

Il più celebrato e amato capolavoro di Jacques Becker, storia d’un amour fou, del suo esito fatale, del suo contesto a un tempo sordido e splendido, la Parigi malavitosa di fine Ottocento ispirata alle stilizzazioni dell’illustrazione popolare, accesa da uno sfolgorante bianco e nero e dal fuoco dei sentimenti, che siano l’amore, l’amicizia o l’anarchia. Casco d’oro è Simone Signoret, prostituta dall’alta e abbagliante coiffure che manda in rovina l’onesto carpentiere Serge Reggiani, entrambi nell’interpretazione d’una vita.

Becker è affascinato dagli oggetti, dalle scenografie, e dal modo in cui rivelano i pensieri, le convinzioni e le emozioni degli uomini e delle donne che li utilizzano. È evidente che un simile talento potrà esercitarsi più facilmente su un soggetto contemporaneo che su uno storico, ed è questo che conferisce a Casco d’oro un rilievo particolare fra i successivi film del suo autore. Si noterà tuttavia che Becker, nonostante il fascino delle scenografie, ha fatto di tutto perché Casco d’oro fosse realistico, come mostrano in particolare le sequenze finali altrettanto implacabili, e non meno straordinarie, di quelle del miglior Rossellini (alcune scene di Roma città aperta e l’ultimo episodio di Paisà), ma dotate in più della forza che conferisce loro un assoluto controllo estetico del soggetto.   (Lindsay Anderson)

 


 

(Singin' in the Rain, USA/1952) di Stanley Donen e Gene Kelly

Soggetto, sceneggiatura: Adolph Green, Betty Comden. Fotografia: Harold Rosson. Montaggio: Adrienne Fazan. Scenografia: Cedric Gibbons, Randal Duel, Harry McAfee. Musica: Nacio Herb Brown, Roger Edens, Al Goodhart, Al Hoffman. Interpreti: Gene Kelly (Don Lockwood), Donald O’Connor (Cosmo Brown), Debbie Reynolds (Kathy Selden), Jean Hagen (Lina Lamont), Millard Mitchell (R.F. Simpson), Douglas Fowley (Roscoe Dexter), Rita Moreno (Zelda Zanders), Cyd Charisse (ballerina). Produzione: Arthur Freed per MGM. Durata: 103’.

Restaurato in 4K nel 2022 da Warner Bros.

La satira esuberante di una Hollywood travolta dal sonoro, la torrenziale celebrazione dello slancio amoroso, l'energia comica che incrocia e si risolve nella perfetta stilizzazione coreografica. L'idea stessa del musical, nel fuggevole apogeo della sua felicità. È davvero il film dei magici accordi: di Stanley Donen e Gene Kelly, di una formidabile coppia di sceneggiatori come Betty Comden e Adolph Green, di un produttore di straordinario talento come Arthur Freed. La squadra che ha consegnato il musical americano all'eternità.

L’onirismo della grande tradizione del musical hollywoodiano era negli anni andato vieppiù svanendo, mentre per forza di cose era invece rimasta la stilizzazione del canto e della danza. Il lavoro di Donen e Kelly, e specificamente Singin’ in the Rain, si situa in questo periodo di declino che però – bisogna notarlo – non è, o non è ancora, un momento di crisi. Anzi, proprio fra i Quaranta e i Cinquanta la MGM, casa-leader in ambito di musical, sfornerà una serie di pellicole forse non sempre eccelse ma comunque brillanti e gradevoli (talora addirittura sfarzose) che contribuiranno non poco a identificare il genere con la casa stessa. In effetti, i musical della Metro, poco importa il regista o la qualità dei singoli esiti, esibiscono tutti – senza distinzione – un look preciso e riconoscibile, una qualità patinata, coloratissima, smaltata, lucida e gaia quale nessuna altra produzione poteva vantare. […] Singin’ in the Rain è nel suo insieme una forte, eloquente metafora di un’altra condizione critica del cinema hollywoodiano. Insomma, trattando della grande crisi causata dall’avvento del sonoro, il film allude in realtàa un’atmosfera e a una problematica che si riferiscono invece a una crisi, di altra natura ma non meno preoccupante, che si sarebbe verificata vent’anni dopo. […] Singin’ in the Rain è dunque una pellicola nostalgica, la rivisitazione di un passato forse non molto lontano nel tempo, ma situato ad anni-luce di distanza quanto a gusto, mentalità, moda, e naturalmente anche tecnologia. Così lontano che la sequenza d’apertura con un’inquadratura dall’alto in campo lunghissimo della zona del Grauman ha il sapore di una scena presa di peso da un cartone animato: i colori, le luci, i movimenti in lontananza, le linee architettoniche non sembrano affatto veri(ricreati), ma appartengono piuttosto a un altro ordine di immaginario, quello di una realtà trasfigurata da una fantasia colorata e infantile, rutilante e microscopicamente grandiosa.
(Franco La Polla)


 


 

(Lost Highway, USA/1996) di David Lynch

Soggetto
e sceneggiatura: David Lynch, Barry Gifford. Fotografia: Peter Deming. Montaggio: Mary Sweeney. Musica: Angelo Badalamenti. Scenografia: Patricia Norris. Interpreti: Bill Pullman (Fred Madison), Patricia Arquette (Renée Madison / Alice Wakefield), Balthazar Getty (Peter Raymond Dayton), Robert Loggia (sig. Eddy / Dick Laurent), Robert Blake (uomo misterioso), Natasha Gregson Wagner (Sheila), Gary Busey (Bill Dayton), Jack Nance (Phil), Richard Pryor (Arnie), Michael Massee (Andy). Produzione: Mary Sweeney, Tom Sternberg, Deepak Nayar per CiBy 2000, Asymmetrical Productions. Durata: 134’

C'è una parte della mia creatività che non saprei spiegare, che mi è sconosciuta. È come nella musica: le note sono unite in un certo ordine e formano le melodie. Non interrompiamo l'ascolto per chiederci 'perché il fa minore è là, dopo il mi diesis? (David Lynch).

Telefonare a casa propria e scoprire che a rispondere è l’uomo che vi sta davanti in quel momento. Ascoltare il citofono di casa e sentire la propria voce affermare che un tizio è morto. Cambiare personalità a metà film e vedere un mondo che possiede lo stesso lessico ma un'altra sintassi. Strade perdute è tutto così, un film che si presenta scintillante e dark, impaginato come un catalogo di moda, ma attraversato da ogni tipo di paradosso logico, da situazioni esasperate che lasciano un malessere gravoso, da narrazioni che si avvitano dentro una spirale inspiegabile. Il film più sofferto e instabile di Lynch.


 


 

(Italia/1946) di Vittorio De Sica

Soggetto, sceneggiatura: Sergio Amidei, Adolfo Franci, Cesare Giulio Viola, Cesare Zavattini. Fotografia: Anchise Brizzi. Montaggio: Nicolò Lazzari. Scenografia: Ivo Battelli. Musica: Alessandro Cicognini. Interpreti: Franco Interlenghi (Pasquale), Rinaldo Smordoni (Giuseppe), Aniello Mele (Raffaele), Bruno Ortensi (Arcangeli), Emilio Cigoli (Staffera), Gino Saltamerenda (Panza), Anna Pedoni (Nannarella), Leo Garavaglia (commissario di P.S.), Enrico De Silva (Giorgio), Antonio Lo Nigro (Righetto). Produzione: Paolo William Tamburella per Alfa Cinematografica. Durata: 93'

Restaurato in 4K da The Film Foundation e Fondazione Cineteca di Bologna, in collaborazione con Orium S.A., presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata. Con il sostegno di Hobson/Lucas Family Foundation

Vita di strada, riformatorio e fuga di due piccoli lustrascarpe romani. De Sica e Zavattini, ruvidezza ancora intrisa di guerra, pedinamento fiabesco. Capolavoro d'umanesimo neorealista. Ignorato dal pubblico in Italia, vinse l’Oscar per il miglior film straniero. "Erano i giorni che sapete. E io pensavo: adesso sì che i bambini ci guardano! Erano loro a darmi il senso, la misura della distruzione morale del paese" (Vittorio De Sica).

In Sciuscià la guerra, che ha prodotto un’enorme crescita del Lumpenproletariat, prosegue ora in altre forme, come guerra di strada nella giungla urbana. Le situazioni cui lo Stato, la burocrazia e il sistema carcerario sottopongono gli individui sono profondamente e disumanamente assurde rispetto allo sguardo del bambino. Se l’accusa di I bambini ci guardano era diretta ai genitori, qui è trasferita all’apparato sociale. Sullo sfondo di una constatazione crudele spicca una purezza d’osservazione sempre meravigliosa. [...] Sciuscià è una nuova versione dei due mondi di Jean Vigo. Il mondo degli adulti con la loro guerra, il fascismo e lacorruzione è rappresentato in termini di freddo, ordinario realismo, a volte come una bazzecola comica. Il mondo dei bambini è in gran parte invisibile, nascosto, un sogno. Può essere ravvisato sui loro volti o in immagini concepite nello strano chiaroscuro di una leggenda. La visione dei due ragazzi nella foresta in groppa a un cavallo bianco è come una favola che aleggia su tempi malvagi.  (Peter von Bagh)


 


 

(The Warriors, USA/1979) di Walter Hill

Soggetto: dal romanzo omonimo di Sol Yurick. Sceneggiatura: David Shaber, Walter Hill. Fotografia: Andrew Laszlo. Montaggio: David Holden, Freeman Davies Jr., Billy Weber, Susan E. Morse. Scenografia: Don Swanagan, Bob Wightman. Musiche: Barry DeVorzon. Interpreti: Michael Beck (Swan), James Remar (Ajax), Deborah Van Valkenburgh (Mercy), Marcelino Sanchez (Rembrandt), David Harris (Cochise), Tom McKitterick (Cowboy), Brian Tyler (Snow), Dorsey Wright (Cleon), Terry Michos (Vermin), David Patrick Kelly (Luther). Produzione: Lawrence Gordon per Paramount Pictures. Durata: 94’

Scriveva Andrew Sarris all'uscita del film: "Il linguaggio delle gang è volutamente criptico, il senso dello spazio è chiaramente magico". C'era una nuova magia, nera e sotterranea, nella storia dell'attraversamento che conduce la banda dei Warriors dal Bronx a Coney Island, mentre tutte le altre street gang sono alle loro calcagna. Film epico ed epocale, per varie ragioni: i ribelli di Walter Hill, senza cause pervenute che non fossero la pura sopravvivenza del gruppo, replicavano il clima di (vera) paura che all'epoca regnava nelle (vere) strade di New York e lo sottoponevano a un restyling in chiave di mitologia popolare, tra western all'italiana e cavalieri della Tavola Rotonda. Accoglienza controversa, successo divenuto culto, imitazioni a non finire.

Trovavo interessante l’idea di non guardare a una banda in termini di problema sociale, ma sotto un altro punto di vista, quello del loro eroismo inteso nell’accezione classica del termine. [...] Mi piaceva anche l’idea di raccontare una vicenda tratta dalla storia greca. Si trattava dell’Anabasi ambientata in un mondo futuristico e fantascientifico [...] Quando si dà vita a una fantascienza c’è spesso la propensione ad astrarla del tutto. Ho pensato che la sfida sarebbe stata renderla realistica e fantastica allo stesso tempo; volevo combinare quei due elementi per farne un fumetto dark.
(Walter Hill)


 


 

(Messico/1953) di Luis Buñuel

Soggetto: basato sul romanzo omonimo (1926) di Mercedes Pinto. Sceneggiatura: Luis Buñuel, Luis Alcoriza. Fotografia: Gabriel Figueroa. Montaggio: Carlos Savage. Scenografia: Edward Fitzgerald. Musica: Luis Hernández Bretón. Interpreti: Arturo de Córdova (Francisco Galván de Montemayor), Delia Garcés (Gloria Vilalta), Aurora Walker (Esperanza Vilalta), Carlos Martínez Baena (padre Velasco), Manuel Dondé (Pablo), Rafael Banquell (Ricardo Luján), Fernando Casanova (Beltrán), Luis Beristáin (Raúl Conde). Produzione: Óscar Dancigers per Ultramar Films. DCP. Durata: 92’. Bn.

Nel 1953 la carriera registica di Luis Buñuel stava riprendendo con maggiore libertà e intraprendenza in Messico. Dopo il successo europeo di I figli della violenza, Luis Buñuel adattò con il suo complice e collaboratore abituale Luis Alcoriza il romanzo Él di Mercedes Pinto: più che una storia di fantasia era la cronaca dettagliata del terrificante calvario vissuto da vittima di un marito megalomane e gelosissimo che era, in realtà, un caso grave di delirio paranoide (Lacan mostrava questo film ai suoi studenti di psichiatria come buona illustrazione della malattia).
Magnificamente interpretato da Arturo de Córdova, Francisco Galván è ciò che in Spagna si chiama meapilas, un baciapile: un devoto ‘cristiano buono e puro’, ma di fatto un vergine di mezza età. Ossessionato dai piedi calzati di un’altra fedele, Gloria (Delia Garcés), lacorteggia finché questa non rompe con il fidanzato per sposare lui, sorprendentemente affascinata com’è dal suo carattere dispotico. Ma già durante la luna di miele Gloria scopre e subisce la gelosia completamente ingiustificata dell’uomo, che interpreta maniacalmente ogni cosa come gesto beffardo e come prova dell’infedeltà della moglie o di complotti contro di sé e contro i propri interessi finanziari e patrimoniali. Diffida di sua moglie, dei suoi avvocati e di quasi tutti, disprezza gli esseri umani che considera parassiti e afferma in modo megalomane che se fosse Dio non perdonerebbe mai l’umanità.
Sebbene di solito Luis Buñuel fosse un grande umorista e un perenne surrealista, questo – un po’ come Il ladro di Hitchcock – è probabilmente uno dei suoi film più seri, e anche uno dei più complessi e maggiormente caratterizzati da un narrazione tesa ed ellittica, e si conclude con una delle più inquietanti scene finali mai girate. Considerato da molti il migliore tra i capolavori di Buñuel insieme a Estasi di un delitto e a L’angelo sterminatore, contiene alcune immagini che spingono a chiedersi se Hitchcock avesse visto e ricordasse Él quando girò La donna che visse due volte cinque anni dopo.  (Miguel Marías)


 


 

(Sedmikrásky, Cecoslovacchia/1966) di Věra Chytilová

Soggetto: Věra Chytilová, Pavel Juráček. Sceneggiatura: Věra Chytilová, Ester Krumbachová. Fotografia: Jaroslav Kučera. Montaggio: Miroslav Hájek. Scenografia: Karel Lier. Musica: Jiří Šust, Jiří Šlitr. Interpreti: Jitka Cerhová (Marie I), Ivana Karbanová (Marie II), Julius Albert (l’uomo di mondo più anziano), Jan Klusák (l’uomo di mondo giovane), Marie Češková, Jiřina Myšková, Marcela Březinová, Oldřich Hora, Václav Chochola, Josef Koníček. Produzione: Filmové studio Barrandov. Durata: 75’

Le margheritine è una metafora della distruttività della natura umana applicata alla civiltà moderna in generale e al sistema comunista in par- ticolare. Le ragazze, piccole demolitrici irriverenti e imbronciate capaci di esercitare una forza devastatrice, rappresentano in chiave satirica la crisi contemporanea dei valori e una visione grottescamente deformata del futuro. Una bruna e l’altra bionda, nelle loro apparizioni pubbliche le due sono intercambiabili. Il subbuglio maniacale che causano è presentato con un’estetica giocosa e un gusto sofisticato mettendo in contrasto le immagini documentarie e le manifestazioni più incivili del mondo moderno. La totale distruzione perseguita dalle ragazze è provocata dalla noia e dal desiderio di cambiamento: le due Marie ambiscono a un mondo di assoluta libertà e fantasia e del tutto privo di scrupoli. La regista Věra Chytilová si rifiuta di risparmiare le sue protagoniste e fa letteralmente a pezzi le loro controparti maschili. L’autrice rispetta solo i sentimenti autentici, il vero lavoro, e usa creativamente una forma di ironia aggressiva per giungere a un finale moralizzante.   (Briana Cechová)


 

… Classici del cinema che ritrovano il grande schermo, che ritrovano l’incontro vivo con il pubblico di una sala cinematografica. Capolavori di ogni tempo (e senza tempo) che tornano ad essere prime visioni. E di prime visioni di tratterà a pieno titolo, per le generazioni di oggi: perché è solo la visione collettiva davanti a un grande schermo che può recuperare, di questi film, l’autentica bellezza visiva, l’emozione dirompente, e tutto il divertimento, il piacere, il brivido.
La Cineteca di Bologna promuove insieme al Circuito Cinema la distribuzione di una serie di dieci grandi film nelle sale del Circuito Cinema, diffuse sull’intero territorio nazionale. si tratta, in tutti i casi, di film restaurati con tecnologia digitale negli ultimi anni, riportati quindi a uno splendore e a una nitidezza visiva mai raggiunti prima: in tutti i sensi, prime visioni. I film saranno presentati in versione originale con sottotitoli italiani.
Basta aver assistito una sola volta alla proiezione di un grande film restaurato in un festival o rassegna internazionale per rendersi conto di quanto l’esperienza risulti coinvolgente per un ampio pubblico. Le visioni televisive (peraltro sempre più rare!) o su dvd (peraltro di qualità spesso modesta) vengono spazzate via dalla presenza viva delle immagini su un vero schermo.