TRAMA
: La storia di una famiglia ebrea dalla fine della
Seconda Guerra Mondiale ai nostri giorni, attraverso le
vicende di tre generazioni: una riflessione potente
sulla memoria e sull'identità.
La RECENSIONE (di
Marzia Gandolfi - MyMovies) Piombati
nell'inferno concentrazionario tre soldati polacchi
provano a lavare l'impossibile. A turno gettano secchi
d'acqua sul pavimento, insieme spazzano con vigore le
pareti fino a rimuovere dall'intonaco ciocche di capelli
intrecciati come un enigma. Poi un grido sorge da quel
luogo sotterraneo dove la morte inghiottiva in massa. È
il pianto vivo di Eva. Anni dopo, il trauma di quella
bambina, sopravvissuta alla Shoah, passa come una
maledizione a sua figlia, Lena, che ha un figlio
adolescente e una vita senza pace, e poi al nipote,
Jonas, che vive con la madre a Berlino e si innamora per
scongiurare le aggressioni razziste di un nuovo secolo.
Tre esistenze, la stessa famiglia marcata dalla Storia.
La nostra epoca ha la cattiva abitudine di ridurre i
confini. Sul piano estetico tra fiction e realtà, sul
piano etico tra carnefice e vittima, sul piano politico
strumentalizzando il "dovere della memoria". Per
rispondere a questa mancanza di distinzione, che tutto
confonde, il cinema ha distinto tre temporalità
possibili che producono altrettanti generi. La prima è
quella della Storia, raccontata dai documentari, è il
tempo del racconto lineare, dettagliato e pedagogico che
sa risalire alle cause immediate e lontane della "lunga
durata"; la seconda è quella della fiction, frazionata
dal montaggio in flashback e flashforward destinati a
formare frammenti narrativi autonomi il cui legame si
rivela dopo l'evento; la terza è il tempo pieno e
insostituibile dell'esperienza umana concreta, che
cogliamo ogni volta che guardiamo e ascoltiamo una
testimonianza vissuta.
Kornél Mundruczó ricorre alla fiction, che non è meno
franca e seria di un documentario. L'impatto
cinematografico di una maniera o di un'altra è a misura
del talento della personalità che la esprime,
Claude Lanzmann,
Marguerite Duras,
Roberto Benigni. L'efficacità delle loro opere, come
del nuovo film di Mundruczó, sta tutta nella loro
argomentazione e nella forma che la regge. Quel
giorno tu sarai sposa la visione soggettiva della
Shoah introducendo la storia individuale in quella
collettiva, traducendo un punto di vista, tre punti di
vista.
L'autore ungherese fa vivere l'orrore attraverso tre
personaggi contemporanei che si battono, ciascuno a suo
modo, con un passato difficile da assumere.
I meccanismi di difesa disperata passano per la
negazione, per la collera, per la colpa, per la vergogna
e i protagonisti ne sono la complessa rappresentazione.
Mundruczó evoca l'esperienza concentrazionaria, la
incarna in Jonas, in una nuova generazione, per
suscitare una proiezione e un'identificazione capace di
implicarla.
La storia di questo adolescente che eredita con
l'identità ebraica della nonna un dramma che non ha mai
conosciuto, è un monito a tenere alta la vigilanza su
quello che accade ogni giorno nel mondo. Creatrice di
immagini, la letteratura ha aperto la via al cinema,
documentario o finzionale che sia.
Dall'autobiografia ieratica di Imre Kertész ("Essere
senza destino"), che ha ispirato l'episodio di apertura
("Eva"), alla "memoria riflessiva" di Primo Levi ("I
sommersi e i salvati"), la 'poesia' diventa (forse) la
migliore traduzione possibile del carattere metafisico
di un'esperienza di disumanizzazione, un'esposizione
testimoniale evocativa per dire la sua tragica opacità.
Kornél Mundruczó, ricorrendo ancora una volta alla
virtuosità del piano-sequenza, centrale in
Pieces of a Woman, gira un racconto in tre atti
di risonanze intime di una tragedia storica su una
famiglia ungherese. Ogni capitolo è sviluppato
attraverso un piano sequenza di trenta minuti.
Attraverso questa tecnica, evidentemente artificiale,
Mundruczó non ha nessuna velleità di naturalismo o di
ri-trascrizione in tempo reale, l'autore costruisce una
'stanza-mondo', una escape room in cui invita e
poi costringe lo spettatore perché vi si getti corpo e
anima, perché reagisca alle sue regole. L'impresa è
spinta al parossismo nel primo episodio in cui vediamo
tre uomini entrare in un seminterrato, svuotare secchi
d'acqua, strofinare muri con gli spazzoloni. La paura è
palpabile ma passa tutto per gli sguardi, 'non ci sono
parole'.
Mundruczó fa meraviglie, governando la macchina da presa
che registra gli ingressi degli attori in campo, entrate
puntuali e perfette. Cosa fanno quegli uomini? Cos'è
quel movimento spasmodico che li muove e li squassa? Il
racconto rivela il suo mistero alla fine di una mezz'ora
opprimente, praticamente in apnea, poi riprendiamo
progressivamente a respirare e facciamo la scoperta
perturbante dello spazio. E nessuno sa metterlo in scena
come Mundruczó, che filmi una zona di guerra o un
dialogo in soggiorno, tutto assume la dimensione di
smarrimento, di terrore quasi solenne. Quell'impressione
proviene da quello che il regista 'attira' nel campo
della sua mdp. Qualcosa che non si posa mai veramente e
gira intorno, che si palesa e si ritira.
I piani-sequenza in Quel giorno tu sarai non
sono mai un mero esercizio stilistico, la decisione di
non tagliare è una maniera di ribadire gli occhi ben
aperti, di rifiutarsi di chiuderli. Non c'è tregua
davanti al lavoro della memoria, non c'è silenzio
davanti alla Storia. La messa in scena per l'autore è
una superficie che monta e minaccia a ogni istante di
strabordare, l'orrore risale l'immagine come un ricordo
rimosso, come i capelli dei detenuti, 'reliquie' di un
martirio e rappresentazione simbolica dell'orrore, o
come l'acqua, 'diluvio biblico' che lava via fino a
cancellare le tracce della storia: libri, foto,
documenti di famiglia.
Mundruczó, autore radicale che continua la sua
esplorazione delle identità e degli avvenimenti che
'forgiano' l'Europa (Una
luna chiamata Europa), interroga le tracce
lasciate dalla Shoah su generazioni differenti.
Attraverso Eva, Lena, Jonas il film traccia la
cartografia di un inconscio 'di famiglia' mai placato.
Il formato quasi quadrato (4:3) rinforza il sentimento
di un film ritratto piuttosto che affresco.
Quel giorno tu sarai è 'tagliato' non a misura
del 'paesaggio', del mondo fuori, ma della relazione che
i personaggi intrattengono con la loro vita, con la loro
storia, con il loro io profondo, con la voce di dentro.
Mundruczó non ricrea la realtà, prova piuttosto a
esplorare quello che c'è di più personale in un trauma,
di più soggettivo, prova a dare forma a un ricordo
persistente aggrappato da qualche parte nella memoria di
Eva, che ha perso la testa e la salute, che ha
difficoltà ad assumere la propria identità (ungherese,
ebraica, tedesca?), che non sa quale lingua parlare e
come parlare a sua figlia, sopravvissuta all'eredità di
una tragedia familiare.
Chiude il film il nipote di Eva che rifiuta la sua
ebraicità, così difficile da portare per i suoi pochi
anni. Solo Lena tenta di raccordare quello che
costituisce l'essenza della loro esistenza, tenendo viva
con la luce di una "lanterna" la tradizione ebraica e
l'oltraggio subito dal suo popolo. Tre voci per
comprendere la meccanica di un trauma che sopravvive
anche molto tempo dopo nelle persone, tra una madre e
una figlia, tra una nonna e un nipote.
'Giocando' con l'acqua e col fuoco, Quel giorno tu
sarai fa i conti con la continuità dell'esperienza
dell'antisemitismo, dai campi di sterminio ai fascismi
contemporanei, sulle generazioni, rendendolo ancora più
insopportabile e dimostrando che un'opera può
sostituirsi all'impotenza della rappresentazione
prendendo coscienza dei propri limiti e facendo di quei
limiti la misura e il mezzo del suo potere.
Come
Pieces of a Woman, Quel giorno tu sarai
è basato su una pièce di Kata Wéber, conta su Lili
Monori, monumentale nell'atto più teatrale del film,
indaga ottant'anni di memoria sullo sfondo muto di nuovi
estremismi, comprime il tempo e lo spazio per sondare il
futuro e chiude su una nota di speranza, un finale
arioso, contro l'incipit claustrofobico, rivolto verso
l'avvenire. |